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con la certezza però, entro di sè, che non solo non sarebbe riuscito, ma non avrebbe avuto nè animo nè modo di provarcisi, sospeso come si sentiva, e come per un pezzo avrebbe seguitato a sentirsi, in uno smarrimento che quasi gli toglieva il respiro e gli faceva apparir tutto intorno vacillante e inconsistente.
Questo smarrimento, difatti, non solo gli era durato, ma gli era via via cresciuto, in mezzo a quella precarietà d’esistenza eccentrica, scombussolata, in casa dello zio. Come mai aveva potuto questi adattarsi a vivere così, comporsi in un certo suo ordine meticoloso, in mezzo a tanto disordine, trovarvi un po’ di terra da gettarvi le radici?
Capiva Olindo Passalacqua, la signora Lalla (Nanna, come la chiamavano) e il fratello di lei, Pilade Bonomè: zingari; il primo, chi sa donde venuto; gli altri due, figli d’un impresario teatrale, capitato prima del 1860 a Palermo, e travolto nella corrente liberale dai giovani signori dell’aristocrazia palermitana, frequentatori assidui del palcoscenico del teatro Carolino. Fallita dopo alcuni anni l’impresa, poveri, vittime della rivoluzione, come diceva ancora Olindo Passalacqua, il quale, subito dopo aver sposato la figlia dell’impresario, aveva perduto la voce; erano venuti a Roma, poco dopo il ’70, e s’erano rovesciati addosso a zio Roberto, raccomandati da un amico di Palermo.
Avventurarsi nel bujo della sorte, gettarsi alle più stravaganti imprese, prendere da un momento all’altro le più strampalate risoluzioni, era per essi come bere un bicchier d’acqua. Oggi qua, domani là; oggi abbondanza, domani carestia: bastava loro ogni giorno arrivare alla sera, comunque, senza indietreggiare di fronte a tutti i possibili ostacoli, ai sacrifizii più duri, buttando in mare le cose più