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Quell’adunanza in casa sua gli pareva la prova generale di una rappresentazione. Tutti quei giovani si erano anche loro assegnate le parti, e gli pareva che, a furia di ripeterle, se le fossero cacciate a memoria e le recitassero con artificioso calore. Mancava il coro innumerevole, ch’era in Sicilia. Oh sì, parlava bene, con bella enfasi apostolica, Cataldo Sclàfani; meritava in qualche punto l’applauso caldo e scrosciante, le lodi del coro, se fosse stato presente. Innamorato della sua parte, la avrebbe rappresentata con perfetta coerenza anche innanzi ai fucili dei soldati, in piazza; e, se tratto in arresto, innanzi ai giudici, in una corte di giustizia.

Perchè lui solo non riusciva ancora a comporsi una parte? perchè ancora, ancora dentro, esasperatamente, gli scattava la protesta: — No, non è questo? Che volevano in fatti tutti quei suoi compagni?

Ben poco, per il momento, in Sicilia. Volevano che, per l’unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti più umani i proprietari di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero l’usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l’impianto di cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell’isola; riuscir vittoriosi in qualche collegio politico, per aver controlli e banditori delle più urgenti necessità dei miseri nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati.

Questo volevano. Ed era giusto. Degne d’ammi-