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narsi con la faccia per terra, piangere e gridare, come prima innanzi alle immagini dei loro santi.

Tutti si volsero à un tratto e si mossero verso Lando Laurentano che entrava di fretta. Chiedendo scusa del ritardo, egli strinse la mano ai primi che gli si fecero innanzi; pregò tutti di prender posto e, appena fu fatto silenzio, disse:

— Ho perduto tempo, signori, per una ragione forse non estranea a gli interessi nostri, a gli interessi specialmente di tanti nostri compagni, che più degli altri, credo, han bisogno in questo momento di ajuto, giù in Sicilia.

— I solfarai! — gridò l’Ingrão, balzando in piedi, come se egli ne fosse il più legittimo difensore. — Ho capito! — aggiunse. — Vuoi dire che c’è qua l’ingegnere Aurelio Costa? Ho capito. Eh, ha viaggiato con me questo signore! Abbiamo discorso a lungo e....

Lando con un gesto lo pregò di tacere:

— L’ingegnere Aurelio Costa, appunto, — riprese, — direttore delle zolfare del Salvo, che credo sia uno dei più ricchi proprietarii di miniero della provincia di Girgenti, è venuto a Roma per interessar la deputazione siciliana a un progetto....

— Permesso? — interruppe di nuovo l’Ingrão. — Non perdiamo tempo, signori miei! Vi spiego io il fatto com’è. Il signor Salvo sta per imparentarsi, per via d’una sorella, col principe di Laurentano....

Un mormorio di protesta si levò per il tratto ruvido dell’Ingrão verso Lando, a cui tutti gli occhi si volsero a chieder scusa dello sgarbo. Ma Lando, sorridendo, s’affrettò a dire:

— Non con me, vi prego! non con me!

E l’Ingrão allora, scrollandosi irosamente, gridò:

— Madonna santissima, per chi mi prendete? Se