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mento dalla fervida simpatia e dall’ammirazione di tutti: Bixio Bruno, Cataldo Sclafani e Nicasio Ingrão, i quali più degli altri s’eran sentiti ferire dalla sua critica.

Stava ciascun d’essi in mezzo ai tre crocchi che si erano formati nella sala. Bixio Bruno, alto di statura, svelto, dal volto olivastro, animoso, e i capelli crespi gremiti, da negro, spiegava con fluida e colorita loquela, storcendo in un mezzo sorriso di soddisfazione la bocca rossa, carnuta, come in poco tempo fosse riuscito a raccogliere a Palermo in un sol fascio i ventisei sodalizi operai, le maestranze discordi, le cui bandiere smesse erano adesso conservate in una sala quali trofei di vittoria. Appariva pieno di fiducia e sicuro del trionfo. Si aspettava, credeva anzi imminente la reazione da parte del Governo: scioglimento dei Fasci, arresti, invasione militare. Ma il buon seme era sparso! Ogni sopraffazione, ogni persecuzione avrebbe reso più grande la vittoria. Potevano esser tratti in arresto trecentomila uomini? No. I capi soltanto, qualche dozzina di soci, se mai; ebbene, eran già pronti i capi segreti, ignorati ancora dalla polizia, e la propaganda avrebbe seguitato più efficace che mai.

Cataldo Sclafani, grosso, tarchiato, con un barbone che pareva un fascio di pruni, parla nell’altro crocchio, profeticamente ispirato; diceva con sorridente commozione che là, là dove prima era spuntata l’alba dell’unità della patria, era fatale spuntasse ora quella più rossa e più fulgida della rivendicazione degli oppressi. Sì, sapeva, sapeva che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nella provincia di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt’altra cosa era