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e notava, ridendo entro di sè, che quei pochi, i quali ostinatamente si vietavano di guardarla, prendevan per lei arie languide o fiere impostature, e per lei, parlando, davan certe modulazioni alla voce, chi flebili e chi audaci, le quali tradivan tutte quel tale orgasmo ferino che la presenza d’una donna suol suscitare. Notava anche in più d’uno un’altra ostentazione: quella di una disinvoltura quasi sprezzante, che tradiva il disagio segreto di trovarsi in una casa ricca e ben mossa.
Lando Laurentano non c’era ancora. Lino Apes, a nome di lui, aveva pregato gli amici d’avere un po’ di pazienza, che presto sarebbe venuto. Nell’attesa s’eran formati alcuni crocchi: due presso le finestre che davano sul giardino, uno presso la tavola preparata in capo alla sala per chi doveva presiedere all’adunanza. Alcuni passeggiavano cogitabondi, altri leggevano sul dorso delle rilegature i titoli dei libri negli scaffali, tendendo gli orecchi, senza parere, a ciò che si diceva in questo e in quel crocchio. Parecchi spiavano obliquamente uno dei deputati che, passeggiando per la sala con le dita inserte nei taschini del panciotto, alzava di tratto in tratto le spalle, protendeva il collo e in segno di meraviglia e di commiserazione stirava la bocca sotto i ruvidi baffi rossastri già mezzo scoloriti.
Era il deputato repubblicano Spiridione Covazza, che in quei giorni aveva scritto male, su una rassegna francese, dell’organamento delle forze proletarie in Sicilia. Vedendosi sfuggito da tutti, con quel gesto pareva dicesse: — Incredibile! — Ma pur doveva sapere che il suo torto era quello di veder tante cose che gli altri non vedevano, e di dare ad esse quel peso che gli altri ancora non sentivano, perchè nel calore della passione ogni cosa par che