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oscena terribilità. Ma forse non sarebbe stato tale per Lando, se in quella voragine non avesse aspettato con ansia feroce uno: Corrado Selmi.
Ah, finalmente!... Già lo vedeva come un albero mezzo sfrondato all’appressarsi della lava: fors’anche prima d’esser toccato dal liquido fuoco vorace, sarebbe sparito in una stridula vampata. E Lando sperava che il suo spirito si sarebbe rischiarato a questa vampata. Ah, per un momento almeno! Il male che quell’uomo gli aveva fatto non era più rimediabile: gli aveva per sempre ottenebrato la vita, tolto per sempre la speranza di volgersi, di riaccostarsi a colei che nella prima giovinezza gli aveva fatto intendere l’eternità in un attimo di luce: luce sfavillante da due occhi neri e da un vanente sorriso, una sera di maggio, lungo la marina di Palermo illuminata, tra il fragor delle vetture, l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini. Per il divino ricordo incancellabile di quest’attimo egli si sarebbe certamente riaccostato alla cugina, appena senza rimorso, senza profanazione almeno dal suo canto, morto il vecchio marito, avrebbe potuto farla sua di nuovo. Ben per questo l’aveva respinta, quand’ella, in un momento di follia, aveva voluto con rabbiosa disperazione aggrapparsi a lui. E quell’uomo vigliaccamente ne aveva profittato.
No, non poteva allontanarsi da Roma in quel momento.
Ora, chiamato con tanta premura da ben altre ragioni in Sicilia, quella per cui Mauro Mortara era venuto, non poteva non sembrargli quasi una grottesca irrisione. Pensò che non certo per il piacere di vederlo lo si voleva presente a quel festino di nozze, ma per una diffidenza del Salvo, che l’offen-