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equilibrio: qua ancora abbottata e intumidita, là floscia, ammaccata, casca da tutte le parti e, come un pallone in cui si sia consumato lo stoppaccio, incespica e si straccia in tutti gli sterpi della via dianzi sorvolata.
Lando Laurentano non sfogava il dispetto, perchè, non avendo potuto prima per l’età, non potendo più ora far nulla, sdegnava come troppo facile dir che gli altri avevano fatto male. Fare.... ecco, poter fare, senza punte parole! Avevano fatto gli altri. Ora era il tempo delle parole. Ne facevano tante gli altri inutilmente, ch’egli poteva bene risparmiar le sue.
Vedeva che coloro, a cui era stato dato di fare, s’erano dibattuti a lungo tra due concezioni, una vacua e l’altra servile: quella di un’Italia classica e quella di un’Italia romantica: una fantasima in toga e un manichino da vestire con la livrea o il beneplacito altrui: un’Italia retorica, fatta di ricordi di scuola, quella stessa forse vagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo, repubblicana; e un’Italia forestiera, o inforestierata tutta nell’anima e negli ordini. Purtroppo, le necessità storiche dovevano effettuar questa. E, in fondo, non si era fatto altro che sostituire una retorica a un’altra; alla scolastica imitazione degli antichi, la spropositata imitazione degli stranieri. Imitare, sempre. — “Oh Italiani, — aveva gridato dalle Murate di Firenze il Guerrazzi, — scimmie e non uomini!„
Soffocati dalle così dette ragioni di Stato gl’impeti più generosi, la nazione era stata messa su per accomodamenti e compromissioni, per incidenze e coincidenze. Un solo fuoco, una sola fiamma avrebbe dovuto correre da un capo all’altro d’Italia per fondere e saldare le varie membra di essa in un sol