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ormai erano ingialliti; s’accartocciavano aridi; cadevano; i tralci nudi si storcevano nella nebbia autunnale, come chi si stiri in un lungo e sordo spasimo di noja; nella grigia distesa dei campi, tra la caligine umida, non rimaneva più altro che un accennar muto e lieve e lento di palmiti vagabondi.
Sì, aveva dato il suo frutto, il tempo. Egli era venuto a vendemmia già fatta. Il mosto generoso e grosso, raccolto in Sicilia con gioja impetuosa, mescolato con l’asciutto e brusco del Piemonte, poi col frizzante e aspretto di Toscana, ora col passante, raccolto tardi e quasi di furto nella vigna del Signore, mal governato in tre tini e nelle botti, mal conciato ora con tiglio or con allume, s’era irrimediabilmente inacidito.
Età sterile, per forza, la sua, come tutte quelle che succedono a un tempo di straordinario rigoglio. Bisognava assistere, tristi e inerti, allo spettacolo di tutti coloro che avevan dato mano all’opera e volevano ora esser soli a darle assetto; alcuni tuttavia sovreccitati e quasi farneticanti, altri già lassi e crogiolantisi con senile sorriso di sufficienza nella soddisfazione d’un’ardua fatica comunque terminata, di cui non volevano vedere i difetti, nè che altri li vedesse.
Ah, in verità, sorte miserabile quella dell’eroe che non muore, dell’eroe che sopravvive a sè stesso!
Già l’eroe, veramente, muore sempre, col momento: sopravvive l’uomo e resta male. Guai, guai se non scoppia l’anima con veemenza investita da quel vento propulsore che la gonfia, la sforza e le fa assumere a un tratto una terribile maschera di grandezza!... Dopo quello sforzo, caduto il vento, l’anima violentata non sa, non può più ricomporsi nelle sue proporzioni normali, non trova più il suo