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poi, che gli s’intravedevano appese alla camicia d’albagio, sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare ch’egli, ecco, era degno di passare per Roma, si era meritata la grazia, guadagnato l’onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zàino.
Come avrebbe potuto supporre che quelle medaglie, a Roma, attufata d’odio e di fango in quei lividi giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventato quasi titolo d’infamia “vecchio patriota„?
Ed egli rideva a tutti coloro che gli ridevano, senza il più lontano sospetto che ridessero di lui, credendo invece che partecipassero alla sua gioja, a quella sua gioja rigata di lagrime che, quasi grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa.
Non vedeva altro di Roma, che questa sua gioja d’esserci; e tutto in quella fiamma d’allucinazione gli si presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi. Tre, quattro volte, nell’allungare il passo, gli era venuto meno il marciapiedi, e per poco non era ruzzolato.
Andava com’ebro, senza mèta, smarrito, annegato nella sua beatitudine; e appena gli fantasmeggiava innanzi un aspetto grandioso, una fontana, un palazzo, un monumento, giù altre lagrime dagli occhi gonfi di commozione.
Lando Laurentano avrebbe voluto dargli una guida; ma che guida! egli non voleva sapere; non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpicciolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava.