Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 27 — |
della poltrona, volendo fingere di dormire; come però il D’Atri aprì l’uscio, ella riaprì gli occhi con molle stanchezza, quasi veramente avesse dormito.
— Domani, no? — gli domandò di nuovo, con grazia languida. — Ho proprio sonno, Francesco! Se perdo il filo?
— Non lo perderai, — diss’egli aggrondato, lisciandosi la barba con la mano tremolante. — Del resto, se vuoi, il mio discorso potrà anche esser breve....
— Ti dimetti? — domandò ella, placidamente.
Francesco D’Atri la guardò, stordito.
— No.... — disse. — Perchè?
— Credevo.... — sbadigliò donna Giannetta, portandosi una mano innanzi alla bocca.
— No, qui, qui, di cose nostre, della casa, devo parlarti, — riprese egli. – Abbi un po’ di pazienza. Sono anch’io tanto stanco! Se vuoi, del resto, che il mio discorso sia breve, non offenderti.
Donna Giannetta sgranò gli occhi:
— Offendermi? perchè?
— Ma perchè, se dev’esser breve, sarà pure per conseguenza molto chiaro, senza frasi, — rispose egli. — Mi lascerai dire; poi farai, spero, quel che ti dirò io, e basterà così. Dunque, senti.
— Sento, — sospirò ella, richiudendo gli occhi.
Francesco D’Atri agitò più volte con stento due dita:
— Due.... due sciagure ti son capitate, — cominciò.
Donna Giannetta tornò a scuotersi:
— Due? a me?
— Una, l’hai proprio voluta, — seguitò egli. — Vecchia sciagura. Sono io.