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ridendo d’ira, d’onta, di dispetto, Giulio Auriti. — Ecco perchè non sono stati sottratti!
— Ma quando la paura ha preso possesso! — venne a gridargli in faccia, con voce soffocata, Francesco D’Atri. — Zuffa di ladri, che rubano di notte con mani tremanti e come ciechi; rimestano, arraffano, ficcano dentro; e intanto di qua, di là, dal sacco, dalle tasche, il furto scappa via; e nella ressa, tra i piedi, c’è chi ruba ai ladri, chi ghermisce questa e quella carta caduta, e corre a far bottega su la vergogna: — “Ecco, signori, i più bei nomi d’Italia! Ecco l’onore! ecco le glorie della patria!„ — Non mi far parlare.... So a chi parlo! Ma ormai..... tanto, n’ho fino alla gola.... Non è umano, capisco che non è umano pretendere da Roberto il silenzio: per sè, per sua madre, per te, per il nome che portate....
— Roberto? — fece l’Auriti. — Ma Roberto, Vostra Eccellenza lo conosce, sarà anche capace di tacere. Il Selmi stesso....
— Se Roberto tacerà? — domandò il D’Atri, come se ne dubitasse.
— Ma io no, Eccellenza! — s’affrettò allora a ripetere l’Auriti. — Glielo dico avanti: io no, per la mamma!
— Aspetta! — riprese il D’Atri, quasi imponendogli di tacere. — Se ti parlo così, è segno che ho da dirti qualche cosa.
Giulio Auriti lo guardò ansiosamente negli occhi.
Ma il D’Atri non sostenne quello sguardo; n’ebbe fastidio, anzi dispetto; scorse per terra il guanto caduto fin da principio dalle mani del giovine, e riebbe fortissima l’impressione di gravezza insopportabile, che in quei giorni gli faceva la vista di tutti gli oggetti. Ne distrasse gli occhi e disse, cupamente: