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cende fortunose della sua vita errabonda, per mare, in Turchia, nell’Asia Minore, in Africa, e dopo la campagna del Sessanta, aveva prestato sempre la sua opera, colà, disinteressatamente. E ora, ecco, a settantotto anni, se ne partiva povero povero, senza neppure un soldo in tasca, con la sola ricchezza di quelle sue medaglie al petto.
Ma appunto perchè questa sola ricchezza aveva cavato dall’opera di tutta la sua vita, — Sciocco, — poteva dire a quel suo nipote, — tu sei padrone di tre palmi di terra; e se te ne scosti d’un passo, non sei più nel tuo; io, invece, sono qua, sempre nel mio, ovunque posi il piede, per tutta la Sicilia! Perch’io la corsi da un capo all’altro per liberarla dal padrone, che la teneva schiava!
Preso così l’aire, la sua esaltazione crebbe di punto in punto, fomentata per un verso del cordoglio d’essersi strappato per sempre da Valsanìa, e per l’altro dal bisogno di riempire con la rievocazione di tutti i ricordi, che potevano dargli conforto, il vuoto che si vedeva davanti.
Rideva e parlava forte e gestiva, senza badare alla via: rideva al binario della linea ferroviaria, ai pali del telegrafo, frutti della Rivoluzione, e si picchiava forte il petto e diceva:
— Che me n’importa? Io.... io.... La Sicilia.... oh Marasantissima.... vi dico la Sicilia.... Se non era per la Sicilia.... Se la Sicilia non voleva.... La Sicilia si mosse e disse all’Italia: eccomi qua! vengo a te! Muoviti tu dal Piemonte col tuo Re, io vengo di qua con Garibaldi, e tutti e due ci uniremo a Roma! Vediamo chi fa prima! — E chi avrebbe fatto prima? Oh Marasantissima, lo so: Aspromonte, ragione di Stato, lo so! Ma la Sicilia voleva far prima, di qua.... sempre la Sicilia.... E ora quattro canaglie hanno