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fremiti della tempesta, investito di tratto in tratto da raffiche gelate, che gli spruzzavano in faccia la pioggia stillante dagli alberi, di qua e di là dalle muricce, lungo lo stradone. Andava curvo, a testa bassa, il fucile appeso a una spalla, le due pistole ai fianchi, un pugnale col fodero di cuojo alla cintola, lo zàino a tergo, il berretto villoso in capo e le medaglie al petto.
Saliva verso Girgenti; ma voleva andare più lontano; lasciare a un certo punto lo stradone e mettersi per la linea ferroviaria; attraversare una breve galleria, sboccare in Val Sellano, e di lì, nei pressi della stazione, avviarsi per un altro stradone al paese di Favara, ove, in un poderetto di là dall’abitato, viveva un suo nipote contadino, figlio d’una sorella morta da tanti anni, il quale più volte gli aveva offerto tetto e cure nel caso che, infermo, avesse voluto ritirarsi da Valsanìa.
Andava lì, da quel suo nipote; ma non ci voleva pensare.
La testa, il cuore gli erano rimasti come pestati, schiacciati e macerati dallo stropiccìo dei passi di quei giovani, che per supremo oltraggio s’erano introdotti a profanare il camerone del Generale, mentr’egli nella sua stanza, sotto, s’apparecchiava a partire. Non voleva più pensare nè sentir nulla; nulla immaginare dei giorni che gli restavano.
Tuttavia, il cuore calpestato, a poco a poco, sotto l’assillo del pensiero che, forse, quel suo nipote contadino gli aveva offerto ricetto perchè s’aspettava da lui chi sa quali tesori, cominciò a rimuoverglisi dentro, a riallargarglisi in empiti d’orgoglio.
Soltanto da giovane e dalle mani del Generale, fino alla partenza per l’esilio a Malta, egli aveva avuto un salario. Ritornato a Valsanìa, dopo le vi-