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isolana; e corse per tentar di placarlo, per gridargli il suo pentimento e forzarlo a rimanere.
La porta della stanza di Mauro era aperta; la stanza era al bujo e vuota.
Su la soglia stavano incerti e come smarriti i tre mastini. Non abbajarono. Anzi, gli si fecero attorno ansiosi, drizzando le aguzze orecchie, scotendo la breve coda, quasi gli chiedessero perchè il loro padrone, seguito da essi come ogni notte, a un certo punto si fosse voltato a cacciarli, a rimandarli indietro rudemente: perchè?
Da un balcone in fondo venne la voce di don Cosmo:
— Se n’è andato?
— Sì, — rispose Lando.
Don Cosmo non disse più nulla. Nella tetraggine, solenne e come sospesa, della notte ancora inquieta, rimase a udire il fragore del mare sotto le frane di Valsanìa e l’abbajare più o men remoto dei cani; poi, con una mano sul capo calvo, si affisò ad alcune stelle, chiodi del mistero com’egli le chiamava, apparse in una cala di cielo, tra le nuvole squarciate.
Il premio.
Senza curarsi del fango della strada, dove i suoi stivaloni ferrati affondavano e spiaccicavano; con gli occhi aggrottati sotto le ciglia e quasi chiusi; tutto il viso contratto dallo sdegno; un agro bruciore al petto e la mente occupata da una tenebra più cupa di quella che gli era intorno. Mauro Mortara era, intanto, più d’un miglio lontano da Valsanìa.
Andava nella notte ancora agitata dagli ultimi