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Lando tornò a chinarsi per guardare attraverso il buco della serratura.

Veniva, di su, il frastuono di quei quattro, che rincorrevano per il camerone Lino Apes vestito da seminarista, e gridavano e ridevano.

Mauro Mortara, seduto innanzi a una cassa, tratta da sotto il letto, stava con le braccia appoggiate su l’orlo del coperchio sollevato, e il viso affondato tra le braccia.

— C’è? che fa? — domandò don Cosmo.

Lando levò rabbiosamente un pugno verso il soffitto, donde veniva il fracasso dei compagni. Sentiva, tra il dispetto acerbo contro questi e contro sè stesso, un vivo rimorso della fiera offesa recata al sentimento di quel suo caro vecchio, e un angoscioso cordoglio di non potere in quel momento unire il suo richiamo affettuoso a quello dello zio.

— Che fa? — ridomandò questi, più piano.

Che cosa facesse Mauro, col viso così nascosto tra le braccia, lo dicevan chiaramente le medaglie che, appese al petto e ciondolanti per la positura in cui stava, traballavano a tratti. Piangeva.... sì.... ecco.... piangeva.... e aveva a le spalle quel comico zainetto, che già gli aveva veduto a Roma.

— Mauro! — chiamò di nuovo don Cosmo.

A questo nuovo richiamo, Lando, ancora con l’occhio al buco della serratura, gli vide sollevar la faccia e tenerla un po’ sospesa, senza tuttavia voltarla verso l’uscio; lo vide poi alzarsi e accostarsi di furia al tavolino!

— Ha spento il lume, — disse allo zio, rizzandosi.

Stettero entrambi un pezzo in ascolto, perplessi nell’attesa di sentirgli aprir la porta. Si videro lì, allora, come imprigionati: non avevan le chiavi nè dei magazzini, nè del palmento, nè della cantina, e