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di Mauro; e, come gli fu detto che quella chiave era stata scagliata contro Lande, subito s’impensierì e, volgendosi a questo:
— Ma allora vedrai che.... oh per Dio! — esclamò, — se ti ha buttato la chiave, vedrai che se ne va davvero.... Forse se n’è già andato!
— Andato? dove? — domandò Lando, costernato anche lui e addolorato.
— E chi lo sa? — sospirò don Cosmo. E narrò in breve come già a stento fosse riuscito una prima volta a trattenerlo; poi, siccome gli altri quattro giovani ridevano dei pazzi propositi e del sentimento di quello strano vecchio, gli bisognò dir loro chi fosse, che avesse fatto, che cosa fosse per lui quel camerone e che contenesse.
— Ah sì? Anche un leopardo imbalsamato?
E, incuriositi, Lino Apes, l’Ingrào, il Bruno, lo Sclàfani, appena don Cosmo e Lando si recarono a cercar di Mauro, ripresa quella chiave, entrarono nel camerone.
Sott’esso appunto era la stanza di Mauro Mortara.
Don Cosmo e Lando, con una candela in mano, erano entrati in uno stanzino segreto, ov’era una botola che conduceva al pianterreno de la villa; senza far rumore avevano sollevato da terra la caditoia ed erano scesi per la ripida scala di legno, non ben sicura, alla cantina; di qua eran passati nel palmento; avevano poi attraversato due ampii magazzini vuoti, uno sgabuzzino pieno di vecchi arnesi rurali affastellati, ed erano arrivati a un uscio interno della stanza di Mauro.
Chinandosi a guardare, Lando s’accorse dalla soglia, che c’era lume.
— Mauro! — chiamò allora don Cosmo, — Mauro!
Nessuna risposta.