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smo, — è questo soltanto, per ora: di non prendere un raffreddore. Minchionatemi pure, ma cambiatevi.
Che ci fosse roba per tutti, intanto, era soverchia presunzione. Lino Apes, non trovando più nella cassapanca nessun capo di vestiario per sè, gli si fece innanzi con la tonaca di seminarista distesa su le braccia come una bambina da portare al battesimo:
— Posso prender questa?
— E perchè no? Ah, che cos’è, la tonaca? Eh.... se v’andrà....
E sorrise alle risa di quei quattro, che si paravano goffamente degli altri abiti, esalanti tutti un acutissimo odor di canfora. Cataldo Sclàfani s’era acconciato con la napoleona e, poichè gli faceva male il capo, s’era messo in testa, alla carrettiera, un bel fazzolettone giallo, di cotone, a quadri rossi.
La gioventù a poco a poco riprendeva il sopravvento. Nessuno pensò più alla disfatta, all’incertezza dell’avvenire. Tra gli spintoni e la baja dei compagni, Lino Apes, stremenzito in quella tonaca di seminarista, corse in cucina a riaccendere il fuoco. Avevano fame! avevano sete! Ma qua don Cosmo sentì cascarsi l’asino: sapeva appena dove fosse la dispensa; e la chiave forse l’aveva Mauro con sè....
— La chiave? — gridò l’Ingrào. — L’ho trovata!
E corse a raccattare dal pianerottolo della scala quella che Mauro aveva scagliata contro la porta, rimasta là fuori.
— Eccola qua! eccola qua!
Don Cosmo stette un pezzo a osservarla.
— Questa? — disse. — No.... Oh che cos’è? questa è la chiave del camerone! Dove l’avete presa?
Nella confusione non aveva inteso l’ultimo grido