Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 257 — |
Donna Sara era da due giorni digiuna.
Tra gli urli del vento, i boati spaventosi del mare, lo scroscio della pioggia, si udivano i suoi scoppii di tosse, i lamenti e le preghiere recitate ad alta voce. In preda, certo, a un assalto furioso di manìa religiosa, s’era asserragliata nella sua cameretta e rifiutava ogni cura.
Di tanto in tanto don Cosmo, sentendola tossire più forte e più a lungo, si recava premuroso a chiamarla dietro l’uscio e a domandarle se volesse niente. Per tutta risposta donna Sara gli gridava, appena poteva, con voce soffocata:
— Pentitevi, diavolacci!
E riprendeva a gridare avemarie e paternostri.
Finalmente arrivò Leonardo Costa, in uno stato miserando, tutto scompigliato dal vento, con l’acqua che gli colava a ruscelli dal cappotto e con tre dita di fanga attaccata agli scarponi. Non tirava più fiato e non poteva più tener ritta la testa, dalla stanchezza. Mauro, per ricetta, gli fece subito trangugiare un bicchierone di vino, opponendo alla resistenza la solita esclamazione:
— Oh Marasantissima, lasciatevi servire!
Don Cosmo s’affrettò a condurselo in camera e lo ajutò a cangiarsi d’abito, facendogliene indossare uno suo, che gli andava molto stretto, ma almeno non era bagnato. Intanto Mauro aveva portato in tavola e gridava dalla sala da pranzo:
— Santo diavolone, venite o non venite?
Quando vide comparire l’uno e l’altro come duo stralunati, si mise in apprensione e domandò aggrondato:
— Che altro c’è?
Nessuno dei due gli rispose. Don Cosmo, invece, domandò al Costa: