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Donna Sara era da due giorni digiuna.

Tra gli urli del vento, i boati spaventosi del mare, lo scroscio della pioggia, si udivano i suoi scoppii di tosse, i lamenti e le preghiere recitate ad alta voce. In preda, certo, a un assalto furioso di manìa religiosa, s’era asserragliata nella sua cameretta e rifiutava ogni cura.

Di tanto in tanto don Cosmo, sentendola tossire più forte e più a lungo, si recava premuroso a chiamarla dietro l’uscio e a domandarle se volesse niente. Per tutta risposta donna Sara gli gridava, appena poteva, con voce soffocata:

— Pentitevi, diavolacci!

E riprendeva a gridare avemarie e paternostri.

Finalmente arrivò Leonardo Costa, in uno stato miserando, tutto scompigliato dal vento, con l’acqua che gli colava a ruscelli dal cappotto e con tre dita di fanga attaccata agli scarponi. Non tirava più fiato e non poteva più tener ritta la testa, dalla stanchezza. Mauro, per ricetta, gli fece subito trangugiare un bicchierone di vino, opponendo alla resistenza la solita esclamazione:

— Oh Marasantissima, lasciatevi servire!

Don Cosmo s’affrettò a condurselo in camera e lo ajutò a cangiarsi d’abito, facendogliene indossare uno suo, che gli andava molto stretto, ma almeno non era bagnato. Intanto Mauro aveva portato in tavola e gridava dalla sala da pranzo:

— Santo diavolone, venite o non venite?

Quando vide comparire l’uno e l’altro come duo stralunati, si mise in apprensione e domandò aggrondato:

— Che altro c’è?

Nessuno dei due gli rispose. Don Cosmo, invece, domandò al Costa: