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sarmo. Nemmen per ombra gli era passato il dubbio, che l’ordine di consegnare le armi potesse riferirsi anche a lui, o che potesse correre il rischio d’esser tratto in arresto, se fosse salito alla città, armato. Le sue armi erano come quelle dei soldati; il permesso di portarle gli veniva dalle sue medaglie.

Le notizie recate dopo dal Costa avevan fatto su l’anima di lui quel che su una macchia già arruffata dalla tempesta suol fare una rapida vicenda di sole e di nuvole. S’era schiarito un poco, sapendo che a Roma Roberto Auriti era stato scarcerato, quantunque soltanto per la concessione della libertà provvisoria, e che il fratello Giulio aveva condotto con sè a Roma la sorella e il nipote; e scombuiato alla rivelazione inattesa, che Landino, il nipote del Generale, colui che ne portava il nome, era tra i caporioni della sommossa, e che era fuggito da Palermo, dopo la proclamazione dello stato d’assedio, per sottrarsi all’arresto.

Dopo questa notizia s’era messo a guardare con cipiglio feroce Leonardo Costa, appena lo vedeva arrivare stanco e affannato da Porto Empedocle.

L’ansia di sapere era fieramente combattuta in lui dal timore rabbioso che, a cuor leggero, quell’uomo venisse a dargli un tale annunzio, che subito di nuovo lo costringesse ad armarsi e a partire da Valsanìa. Dacchè era stato sul punto di farlo, conosceva per prova quel che gli sarebbe costato staccarsi da quella terra, strapparsi da tutti i ricordi che ve lo legavano, abbandonar la custodia del “camerone„, la sua vigna, i suoi colombi, gli alberi, che per tanto tempo avevano ascoltato i suoi discorsi.

Ma Leonardo Costa, dopo le furie dell’altra volta, sapeva ormai quali notizie erano per lui, quali per