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intanto un certo rancore per la pietà e la commozione, che colui già gli suscitava.
Giulio Auriti non somigliava punto al fratello: alto, smilzo, elegantissimo, spirava dalla temprata agilità del corpo un’energia vigorosa, che gli occhi, d’un bel grigio d’acciajo, attenuavano con un certo sguardo d’orgoglio svogliato. Aveva i capelli precocemente brizzolati, in contrasto con la fulva barba crespa e folta.
Si cangiò tutto d’un subito alla vista del vecchio Ministro, che gli si faceva innanzi così scombujato.
Uno dei guanti, che teneva in mano, gli cadde sul tappeto.
— Ebbene? — domandò.
Francesco D’Atri socchiuse gli occhi per sottrarsi alla pena dell’ansia smaniosa che gli leggeva nel viso. Aprì le mani e mormorò scotendo il capo:
— Non si è trovata....
— Ah, no! — scattò allora l’Auriti con una nuova subitanea alterazione del viso, che esprimeva sdegno, rabbia e insieme risoluzione fierissima di ribellarsi a un’iniquità, senza alcun riguardo più per nessuno. — Ah, no, mi perdoni, Eccellenza, no: la carta c’è, e si deve trovare! Lei sa che mio fratello Roberto....
— So, so.... – cercò d’interromperlo, con durezza, il D’Atri.
— Ma dunque! — incalzò l’Auriti. — Quella sola dichiarazione può salvarlo, e non deve sparire! O via anche tutto ciò che può compromettere Roberto!
Il D’Atri sedette, tornò a premersi forte le mani sul volto e si lasciò cader dalle labbra:
— Il guajo è questo: L’autorità giudiziaria....
— Ma no, Eccellenza! — insorse di nuovo l’Auriti. — L’autorità giudiziaria ha in potere soltanto