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In un modo più spiccio e più brusco, il giorno dopo il suo arrivo, aveva risposto ai colombi, che durante la sua assenza erano stati governati duo volte al giorno, all’ora solita, dal curàtolo Vanni di Ninfa: bum! bum! due schioppettate in aria; e li aveva dispersi con fragoroso scompiglio. Nè migliore accoglienza aveva fatto alla festa dei tre mastini, quasi impazziti dalla gioja di rivederlo.

La placida immobilità dei vecchi oggetti della stanza, impregnati tutti da un lezzo quasi ferino, i quali parevano in attesa ch’egli riprendesse tra loro la vita consueta, gli aveva suscitato una fierissima irritazione: avrebbe preso a due mani lo strapunto di paglia, abballinato in un angolo, e lo avrebbe scagliato fuori con le tavole e i trespoli che lo sorreggevano, e fuori quel torchio guasto delle ulive, fuori seggiole e casse e capestri e bardelle e bisacce. Solo gli era piaciuto riveder nel muro l’impronta degli sputi gialli di tabacco masticato che, stando a giacer sul letto, era solito scaraventare alla faccia dei nemici della patria, sanfedisti e borbonici.

Più volte, la lusinga degli antichi ricordi aveva cercato di riaffascinarlo; più volte, dalla porta aperta, i lunghi filari della vigna, con gli alberetti già verzicanti, sparsi qua e là, nel silenzio attonito di certe ore piene di smemorato abbandono, gli avevano per un momento ricomposto la visione quasi lontana di quel mondo, per cui, fino a poco tempo addietro, vagava nei dì sereni, gonfio d’orgoglio, da padreterno, lisciandosi la barba. D’improvviso, ogni volta, l’anima che già s’avviava, affascinata, a quella visione, s’era ritratta all’aspro e fosco ronzare di qualche calabrone che, entrando nella stanza, lo richiamava con violenza al presente e rompeva il fascino e sconvolgeva la visione.