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tiva nelle parole vuote di senso, negli sguardi e nei sorrisi vani della figliuola. E allora, anche a lui, irresistibilmente, come dal fondo delle viscere contratte dall’esasperazione, venivano alle labbra parole vuote di senso, del tutto impensate; strane, vaghe parole, che gli atteggiavano il viso a seconda delle diverse espressioni ch’esse contenevano in sè, per conto loro, fuori assolutamente della sua coscienza e senz’alcuna relazione col suo stato presente.
Ed ecco che, quel giorno, per seguitar la finzione della sua incoscienza, dopo aver lacerato la lettera de la sorella, si era anche messo a dire, allo stesso modo, parole impensate:
— Quello che serve.... quello che serve....
Se non che, alla fine, aveva mutato in ragionamento la finzione, apparsa a lui stesso troppo evidente:
— Quello che serve.... sì. Devo accendere un sigaro? Mi serve un fiammifero. Ecco il sigaro.... ecco il fiammifero: per sè, due cose; ma fatte per il mio bisogno di fumare. Prima l’uno, poi l’altro, li accendo e li distruggo.... Quanti fiammiferi ho accesi! Troppi.... E tutta l’opera mia è andata in fumo! Male, perchè non sono riuscito allo scopo.... ma io volevo maritar bene la mia figliuola, perchè avessero almeno una bella corona.... già! una corona principesca.... tutte le mie fatiche e le mie lotte. Una corona principesca!... Fumo? Vanità? Eh, ma almeno questo compenso alla morte del mio bambino! Vanità, per forza, se la sorte volle togliermi ogni ragione di attendere a cose più serie, e mi lasciò una povera figliuola, con l’ombra intorno della pazzia materna. E ormai.... ormai.... se servo io, per il bisogno, che qualcuno abbia di fumare....
Ma sì, ecco: non aveva lasciato entrare in casa