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stava seduta a far la calza, con uno scialle grigio di lana addosso e un fazzoletto nero, pure di lana, in capo, annodato sotto il mento, boffice e placida come una balla, donna Fana, la vecchia casiera. Per metà dentro al rettangolo di sole, quasi vaporava nella luce, e la calugine de lo scialle di lana, accesa, brillava con gli atomi volteggianti pulviscolo.

Donna Fana aveva composto con le sue mani nelle bare prima il padrone, morto giovane, poi la padrona, di cui, più che la serva, era stata l’amica e la consigliera, e aveva veduto nascere e crescere tra le sue braccia i due padroncini, ora affidati del tutto alle sue cure. Da giovane, era stata conversa nel monastero di San Vincenzo, ed era rimasta “senza mondo„, com’ella diceva, quasi monaca di casa. Traeva a quando a quando, come nel monastero, certi sospiri ardenti, seguiti dall’immancabile esclamazione:

— Se fossi là!

Ma non c’era più nessuno che le domandasse, come usava tra le monache: — “Dove, sorella mia?„ — perchè ella potesse rispondere in un altro sospiro:

— Sorella, con gli angeletti!

Ma nella pace degli angeli, veramente, era stata sempre, in quella casa. La padrona: una vera santa, ingenua fino a grande come una bambina, incapace di pensare il male, e tutta dedita alla religione e alle opere di misericordia; quei due figliuoli: anch’essi uno più buono dell’altro, costumati e timorati di Dio.

Ora, poteva mai il Signore abbandonare quella casa e lasciarla andare in rovina?

Donna Fana pareva fosse a parte di tutti i voleri di Dio; e parlava del Paradiso, come se già vi fosse