Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 233 — |
ludesse ai soldati, che avevano ucciso quella povera bimba.
Lando Laurentano, invece, alludeva a’ suoi compagni, e aveva innanzi alla mente non più l’immagine di quella piccina, la quale almeno aveva avuto le cure della gentile pietà materna, ma l’immagine atroce di quell’altra vittima grande, con su la faccia le scarpe dell’altro cadavere, e gli occhi sbarrati, pieni di smisurata angoscia, rivolti al cielo.
C’è una speranza....
Nell’antico palazzo dei De Vincentis, fuori annerito dal tempo e tutto screpolato come una rovina, dai balconi e dalla vasta terrazza vellutati di muschio, con le ringhiere a gabbia arrugginite, ma dentro, negli ampli cameroni, pieno di luce e di pace, con quei santi e fiori di cera nelle campane di cristallo, che pareva diffondessero per tutto un odor di badia, il silenzio, stampato sui mattoni coi rettangoli di sole delle invetriate, che s’allungavano lentissimamente sempre più, seguiti dal fervor lento e lieve del pulviscolo, era rotto da un cupo romore cadenzato di passi.
Da una settimana Vincente De Vincentis, dimentico dei codici arabi della biblioteca di Itria, se ne stava in una camera, avvolto in un vecchio pastrano stinto, col bavero alzato, a passeggiare dalla mattina alla sera, con le mani adunche, afferrate dietro il dorso, il capo ciondoloni e gli occhi tra i peli, quasi ciechi, poichè in casa non portava mai gli occhiali.
Nella stanza accanto, presso la vetrata del balcone,