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store la sua mandra. Aspettava la visita e le disposizioni dell’autorità giudiziaria, per il seppellimento. Vedendo entrare quei due, si voltò, poi subito s’alzò e si tolse il berretto, credendo che fossero il giudice e il commissario di polizia. Lino Apes gli si diede a conoscere per giornalista, insieme col compagno, e Lando lo pregò di fargli vedere qualcuno di quei cadaveri.

Il custode allora si chinò su una delle casse, più grande delle altre, vecchia, tinta di grigio, con due fasce nete in croce, e tolse una grossa pietra, che stava sul coperchio.

Due cadaveri, in quella cassa, uno su l’altro: uno con la faccia sotto i piedi dell’altro.

Quello di sopra era d’un ragazzo. Divaricate, le gambe; la testa affondata tra i piedi del compagno. A guardarlo così capovolto, pareva dicesse, in quell’atteggiamento: — No! No! — con tutto il visino smunto, dagli occhi appena socchiusi, contratti ancora dall’angoscia dell’agonia. No, quella morte; no, quell’orrore; no, quella cassa per due, attufata da quel lezzo crudo e acre di carneficina.

Ma più raccapricciante era la vista dell’altro, di tra le scarpe logore del ragazzo, coi grandi occhi neri sbarrati e un po’ di barba fulva sotto il mento. Era d’un contadino nel pieno vigore delle forze. Con quei terribili occhi sbarrati al cielo, dal corpo supino, chiedeva vendetta di quell’ultima atrocità, del peso di quell’altra vittima sopra di sè.

— Vedete, Signore, — pareva dicesse, — vedete che hanno fatto!

Non una parola potè uscire dalle labbra di Lando e dell’Apes; e il custode richiuse il coperchio e di nuovo vi impose la grossa pietra.

Dopo altre e altre casse, di nudo abete, misere,