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veemenza di quell’indignazione generale, a un certo punto s’era arrestato, sentendosi soffocare dall’avvilimento della sua fuga. Era proprio il momento di fuggire, quello? di lasciare il campo? Il terreno scottava sotto i piedi; l’aria era tutta una fiamma. Possibile che l’isola, da un capo all’altro fremente, si lasciasse schiacciare, pestare così, senza insorgere con l’esasperazione dell’odio sì lungamente represso e ora sì brutalmente provocato? Forse bastava un grido! Forse bastava che uno si facesse avanti!

Giunti ad Imera, alla notizia che in un paese lì presso, a Santa Caterina Villarmosa, il popolo era insorto, Lando non potè più stare alle mosse; e, non ostante che gli amici facessero di tutto per trattenerlo, gridandogli che non c’era più nulla da tentare, più nulla da sperare, e che andrebbe a cacciarsi da sè balordamente tra le grinfe della forza pubblica, volle andare.

Solo Lino Apes lo seguì, ma con la speranza di raffreddarlo e d’arrestarlo a mezza via, assumendo per l’occasione, come meglio potè, la parte di Sancio, perchè l’amico, che sapeva sensibile al ridicolo, si vedesse accanto a lui Don Chisciotte. E difatti, presto, i giganti, che Lando nell’esaltazione s’era figurato di vedere in quei popolani di Santa Caterina Villarmosa, insorgenti a sfida della proclamazione dello stato d’assedio, gli si scoprirono molini a vento.

Nei pressi del paese, seppero che colà non si sapeva ancor nulla di quella proclamazione: un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, con un crocefisso in capo alla processione, gridando: — Viva il re! abbasso le tasse! — s’era messo a percorrere le vie