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ridicolo, non tanto per i patti e le condizioni che poneva al governo, ma in quanto mancava ogni realtà di coscienza e di forza in coloro, nel cui nome li poneva. Di reale, non c’era altro che la disperazione di tanti infelici, condannati dall’ignoranza a una perpetua miseria; e il sangue, il sangue, il sangue di quelle vittime.

A viva forza, appena proclamato lo stato d’assedio, s’era fatto trascinare da Lino Apes alla fuga. Era fuggito, non per le ragioni che l’Apes nella concitazione del momento gli aveva gridate, ma per l’invincibile repugnanza di far la figura dell’apostolo o dell’eroe o del martire, esposto nella gabbia d’un tribunale militare alla curiosità e all’ammirazione delle dame dell’aristocrazia palermitana a lui ben note.

A compagni nella fuga, oltre l’Apes, aveva avuto il Bruno, l’Ingrào e Cataldo Sclàfani, tutti e tre travestiti.

Che riso, misto di sdegno e di compassione, che avvilimento insieme e che ribrezzo, gli aveva destato la vista irriconoscibile di quest’ultimo, senza più quel fascio di pruni che gli copriva le guance e il mento! Pareva che gli occhi e la voce ancora non lo sapessero, e producevano un ridicolissimo effetto di smarrimento nelle loro espressioni, di cui già tanta parte era quella barba, che adesso mancava. Ma quel travestimento non tradiva, in verità, alcuna paura in nessuno dei tre; era come imposto dalla parte, che la necessità della fuga assegnava loro in quel momento; ed entrava in esso anche, e non per poco, il fatuo puntiglio della scaltrezza isolana, di fuggire alla sopraffazione della forza pubblica.

S’erano internati nell’isola, correndo innanzi alle milizie, che da Palermo si disponevano a invadere