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venne fuori il proclama del Comitato, diffuso in gran copia su fogli volanti per tutte le città dell’isola; passò dall’uno all’altro attorno alla tavola; ma molti non sapevano che fosse, e ognuno, saputolo, si ricusava d’aprirlo e ne faceva passaggio al più presto, come se quella carta ripiegata e brancicata bruciasse o insudiciasse le mani, finchè arrivò a quelle del giovine segretario, che la spiegò e cominciò a leggerla forte alla presenza del vescovo, tra lo stupore e lo sgomento d’alcuni e i vivaci commenti o di derisione o d’indignazione degli altri.

Trattando come da potenza a potenza col governo, il Comitato, in tono solenne, domandava a nome dei lavoratori della Sicilia: l’abolizione del dazio delle farine (— Eh, fin qui! — ); un’inchiesta su le pubbliche amministrazioni, col concorso dei Fasci (— Oh bravi! Eh, scaltri.... già! — ); la sanzione legale dei patti colonici e minerarii deliberati nei congressi del partito socialista (— Come come? Sanzione legale? Eh già, legale! Il bollo governativo! — ); la costituzione di collettività agricole e industriali, mediante i beni incolti dei privati e i beni comunali dello Stato e dell’asse ecclesiastico non ancora venduti (e qui si scatenò una furia di proteste, una confusione di gridi, tra cui predominavano: — La spoliazione!... Briganti!... Roba di nessuno! — mentre il giovane segretario con la mano faceva cenno di tacere, che c’era dell’altro, di meglio, di meglio, e ripeteva, leggendo nella carta: — Nonchè.... nonchè....) nonchè l’espropriazione forzata dei latifondi, con la concessione temporanea agli espropriati d’una lieve rendita annua (— Oh, troppo buoni! — Troppa grazia! — Che generosità! — Che degnazione!); leggi sociali per il miglioramento economico e morale dei proletarii, e in fine la bomba: stanziamento nel bilancio