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tura calma di quella mansueta omelìa aveva avuto l’accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolìi, che spesso avevan distratto più d’uno, diffondendo nella vasta sala vegliata da quei ritratti antichi, impolverati e ammuffiti, un intenso rammarico della vanità del tempo e della vita, uno sbigottimento indefinito.
Parecchi se n’erano stati a guardare, attraverso uno di quei finestroni, il terrazzino d’una vecchia casa dirimpetto, sul quale un povero matto pareva provasse chi sa quale voluttà, forse quella del volo, esposto lì al vento furioso, che gli faceva svolazzare attorno al corpo la coperta del letto, di lana gialla, posta su le spalle: rideva, rideva con tutto il viso squallido, e aveva negli occhi acuti, spiritati, come un lustro di lagrime, mentre gli scappavan via di qua e di là, come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossigni.
Era, quel poverino, il giovane fratello del canonico Batà, ch’era pur lì nella sala, attentissimo in vista alla lettura del vescovo, ma entro di sè assorto di certo in pensieri estranei, che più volte lo avevan fatto gestire comicamente.
Terminata la lettura, quelli tra i più vecchi canonici, che conoscevano meglio il debole del loro eccellentissimo vescovo, s’affrettarono a circondar la tavola, innanzi alla quale egli stava seduto, per farsi ripetere chi una frase e chi un’altra, fra le tante, di cui Monsignore, dal modo con cui le aveva proferite, era parso loro dovesse essere più contento e soddisfatto.
— Quella, quella dell’esercito di Satana, Eccellenza, come dice?
— Allude alla massoneria, non è vero, Vostra Eccellenza? come dice?