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recato a cavallo, con la scorta di Sciaralla e di altri quattro uomini, per visitar più attentamente quei luoghi, e in ispecie la costa di quel Monte Grande, nella contrada detta Litrasi, ove sono certi loculi, creduti da alcuni topografi tombe fenicie, ma che a lui parevano molto più recenti e disposti e scavati in uno stile uso in Sicilia al tempo del basso impero, sicchè potevano risalire agli anni del vescovado di San Gregorio, cioè al tempo che colà erano sbarcate le tre fedeli vergini Bassa, Paola e Agatonica con la salma odorosa della santa martire Agrippina.

Di ritorno, benchè da ogni parte gli si stendessero amenissimi allo sguardo, nel tepore quasi primaverile, immensi tappeti vellutati di verzura, qua dorati dal sole, là vaporosi di violente ombre violacee, sotto il turchino intenso e ardente del cielo, don Ippolito, guardando le sue mani appoggiate su l’arcione de la sella, non aveva pensato più ad altro, che alla morte, alla sua scomparsa da quei luoghi, che ormai non doveva esser lontana. Ma contemplata così, sotto quel sole, in mezzo a tutto quel verde, mentre il corpo si dondolava ai movimenti uguali della placida cavalcatura, la morte non gli aveva ispirato orrore, bensì un’alta serenità, soffusa di rammarico e insieme di compiacenza, per la gentilezza e la nobiltà dei pensieri e delle cure, di cui aveva sempre intessuto la sua vita in quei luoghi cari, a cui tra poco avrebbe dato l’ultimo addio. E s’era immerso a lungo in quel sentimento nuovo di serenità, come per mondarsi dal terrore angoscioso, ch’essa, la morte, gli aveva dato finora, e a cui doveva quelle indegne sue seconde nozze, che avevano profanato il decoro della sua vecchiezza, l’austerità del suo esilio.