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allungasse uno scappellotto, così, di passata. Ah, signor Principe, bisogna pur subire le ragioni del tempo! Vi si passa un corpo di guardia vestito con la divisa borbonica; ma è bene sappiate che, oggi come oggi, non è senza rischio sposare una donna soltanto innanzi a Dio....
Ancora un’altra agevolazione, e questa davvero inaspettata, e tale da fargli quasi cader le braccia, trovò, appena arrivato a la villa.
Don Ippolito, sdegnato da un canto dalla sfiducia del vescovo; dall’altra al tutto disilluso dalla risposta di Lando, arrivatagli la sera avanti da Palermo, circa alla possibilità di venire a un accordo col partito clericale, s’era rifugiato, come in tante altre occasioni, bisognoso di conforto, nel culto delle antiche memorie, nell’opera da lungo tempo intrapresa sulla topografia akragantina.
Come per l’acropoli, così per l’emporio d’Akragante, si era messo contro tutti i topografi vecchi e nuovi, che lo designavano alla foce dell’Hypsas. Quivi egli invece sosteneva che fosse soltanto un approdo, e che l’emporio, il vero emporio, Akragante, come altre antiche città greche, non poste propriamente sul mare, lo avesse lontano, in qualche insenatura, che potesse offrire sicuro ricovero alle navi: Atene, al Pireo; Megara attica, al Niseo; Megara sicula, allo Xiphonio. Ora, qual’era l’insenatura più vicina ad Akragante? Era la così detta Cala della Junca, tra Punta Bianca e Punta del Piliere. Ebbene là, dunque, nella Cala della Junca, doveva essere l’emporio akragantino.
A questa conclusione era arrivato con la scorta d’un antico leggendario di Santa Agrippina. Ed era lieto e soddisfatto d’una pagina, che aveva trovato modo d’inserire nell’arida discussione topografica, per