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— No, no, che fai? non me la mostrare: mi fa tanta pena! Farfalletta era? proprio farfalletta? Povera bestiolina.... Ma chi gliel’ha detto d’entrare? Con tanta bella campagna fuori.... Ah, avessi io le ali, avessi io le ali!
Come dire che, senza pensarci due volte, se ne sarebbe scappata.
Don Ippolito, per quanto urtato e disgustato, la aveva lasciato fare e dire. Ma una sera, finalmente, non s’era più potuto tenere.
Erano tutti e due seduti discosti sul terrazzo. Egli aspettava che su dalle chiome dense degli olivi, sorgenti sul pendìo della collina dietro la villa, spuntasse la luna piena, per rinnovare in sè una cara, antica impressione. Gli pareva, ogni volta, che la luna piena, affacciandosi dalle chiome di quegli olivi allo spettacolo della vasta campagna sottostante e del mare lontano, ancora, dopo tanti secoli, restasse compresa di sgomento e di stupore, mirando giù piani deserti e silenziosi, dove prima sorgeva una delle più splendide e fastose città del mondo. Ora la luna stava per sorgere, s’intravvedeva già di tra il brulichìo dei cimoli argentei degli olivi, e don Ippolito disponeva la sua malinconia attonita e ansiosa a ricevere l’antica impressione insieme con tutta la campagna, ov’era un sommesso e misterioso scampanellìo di grilli e gemeva a tratti un assiolo, quando, all’improvviso, dalla casermuccia sul greppo dello Sperone era scoppiato, a rompere, a fracassare quell’incanto, il suono stridulo e sguajato del fischietto di canna di capitan Sciaralla. Donna Adelaide s’era messa a battere le mani, festante.
— Oh bello! Oh bravo il capitano, che ci fa la sonatina!
Don Ippolito, era balzato in piedi, fremente d’ira