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e ora da tutta quell’ombra e da quel silenzio, che le vaneggiavano intorno e le rendevano più che mai soffocante l’ambascia per ciò che misteriosamente incombeva ancora su la sua “terribile signorinaggine„, a un certo punto, per quanto si fosse sforzata, non aveva potuto udir più nulla di quel pacato, interminabile discorso. Aveva avuto l’impressione, che esso, proprio fuor di tempo, la volesse trarre per forza quasi in una cima di monte altissima e nebbiosa, dalla quale le sarebbe stato difficile, se non addirittura impossibile, ridiscendere ancora in grado di resistere ad altre sorprese, ad altre emozioni, che quella notte certamente le apparecchiava.

Non per cattiva volontà, ma per l’aria, ecco, per l’aria che, a un certo punto, cominciava a sentirsi mancare, ella non aveva potuto mai prestare ascolto a lunghi discorsi. Oh buon Dio, e perchè poi prendere di questi giri così alla lontana, se alla fine, pur sempre bisognava ridursi a fare, su per giù, le stesse cose, quelle che la natura comanda? Che brutto vizio, buon Dio! E senz’altro effetto, che la stanchezza e la stizza. Anche la stizza, sì. Perchè le cose da fare son semplici, e da contarsi tutte su le dita d’una mano; cosicchè, alla fine, ciascuno deve riconoscere, che tutto quel girare attorno ad esse, non solo è inutile, ma anche sciocco e dannoso, in quanto che, poi, per la stanchezza appunto e con la stizza di questo riconoscimento, si fanno tardi e si fanno male.

Ella dapprima s’era messa a guardare, con occhi tra imploranti e spaventati, il Principe, o piuttosto, quella sua lunga, lunghissima barba. Poi, nell’intronamento, aveva sentito un prepotente bisogno di ritirare la mano e di soffiare, di soffiare un poco,