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erano stramazzati, poi sbranati addirittura, come da una canea inferocita; anche la carrozza, anche la carrozza era stata sconquassata, ridotta in pezzi; e, quando su la catasta formata dai razzi delle ruote, dagli sportelli, dai sedili, erano stati gettati i miserandi resti irriconoscibili dei due corpi, s’era visto uno versare su essi da un grosso lume d’ottone a spera, trafugato dalla vicina stazione ferroviaria, il petrolio, e tanti e tanti con cupida ansia affannosa appiccare il fuoco, come per toglier subito ai loro occhi l’atroce vista di quello scempio.

Così, i particolari della strage erano per minuto e quasi con voluttà d’orrore descritti e rappresentati, come se tutti vi avessero assistito e lo avessero ancora avanti agli occhi. Vedevano tutti quel bruto insanguinato, che versava il petrolio da quella lampa d’ottone su le membra oscenamente squarciate e ammucchiate su la catasta, e quegli altri chini e ansanti a suscitare il fuoco.

Si sapeva che molti, più di sessanta, erano gli arrestati insieme con Marco Préola, aborto di natura; prima, lancia spezzata dei clericali; poi, presidente di quel fascio di solfarai ad Aragona. Tra breve, dunque, forse quel giorno stesso, un nuovo avvenimento spettacoloso: il trasporto di tutti quei manigoldi, in catena, a due a due, dalla stazione al carcere di Santo Vito, tra una scorta solenne di guardie, di carabinieri a cavallo e di soldati.

Ecco, ecco intanto le carrozze! — Là, eccola! — Dov’era la cassa? — Uh, come piccola! — Eccola là! — Su la terza carrozza, là, su quella che aveva in serpe un maresciallo! — Uh, capiva tutta sul sedile davanti! — Quella, quella cassetta là! quella cassettina di latta! — Quella? che nell’altro sedile c’era il commissario di polizia? — Sì, sì! — E chi