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Dianella Salvo, la sua amicuccia donna Dianella, la sua colomba, che in quel mese passato a Valsanìa aveva saputo avvincerlo e intenerirlo con la grazia soave degli sguardi e della voce, nel vederlo entrare aggrondato e smarrito nel salone, gli si precipitò subito incontro quasi con un nitrito di polledra spaurita, e gli s’aggrappò al petto, tutta tremante, affondandogli la testa scarmigliata entro la camicia d’albagio, quasi volesse nascondersi dentro di lui, e gridando, con una mano protesa indietro, verso il padre:

— Il lupo!... il lupo!

Mauro Mortara, così soprappreso, assalito, frugato nel petto da quella fanciulla in quello stato, levò il capo, sbalordito, a cercar negli occhi degli astanti una spiegazione: mirò visi sbigottiti, afflitti, piangenti, mani alzate in gesti di timore, di riparo, di pena e di maraviglia. Non comprese che la fanciulla fosse impazzita. Le prese il capo con ambo le mani e provò di scostarselo dal petto per guardarla negli occhi:

— Figlia mia! — disse. — Che vi hanno fatto? che vi hanno fatto? Ditelo a me! Assassini.... Il cuore.... hanno strappato il cuore.... il cuore anche a me!

Ma, come potè vederle gli occhi e la faccia disfatta, stravolta, aperta, ora, a uno squallido riso, con un filo di sangue tra i denti, inorridì: guatò di nuovo tutti in giro e, riponendosi sul petto il capo di lei e lasciandovi su i capelli scarmigliati la mano in atto di protezione e di pietà:

— Come la madre? — disse in un brivido, e addietro spinto dalla fanciulla che, seguitando sul petto di lui quell’orribile riso come un nitrito, con ansia frenetica lo incitava:

— Da Aurelio.... da Aurelio....