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accostò all’uscio, vi si parò davanti, appena a tempo, che allo squillo del campanello Antonio Del Re s’avventò all’uscio come una belva con un pugnale brandito, trascinandosi dietro nella furia il vecchio che lo teneva abbrancato.

Corrado Selmi, pallidissimo, seduto innanzi alla scrivania, col bicchiere ancora in mano, da cui aveva bevuto or ora il veleno della boccetta rovesciata presso la cartella, si volse e arrestò d’un tratto con uno sguardo gelido e un sorriso appena sdegnoso, tremulo su le labbra, la violenza del giovane.

— Non t’incomodare! — gli disse. — Vedi? Ho fatto io, da me.... — Lascialo! — ordinò al servo. — E ti proibisco di gridare o di correre a soccorsi.

Prese dalla scrivania la busta sigillata e la mostrò al giovane, che ansimava e mirava, ora, allibito.

— Tu butti male, ragazzo, — gli disse. — Hai una trista faccia.... Ma sta’ tranquillo: questa busta è per tuo zio. Sarà liberato. Lasciala stare qua.

Posò di nuovo la busta su la scrivania; strizzò gli occhi; serrò i denti; s’interì, mentre nel pallore cadaverico il viso gli si chiazzava di lividi. Fece per alzarsi; il servo accorse a sostenerlo.

— Accompagnami.... al letto....

Si voltò al Del Re, con gli occhi già un po’ vagellanti. Quasi l’ombra d’un sorriso gli tremò nella faccia spenta. E disse con strana voce:

— Impara a ridere, giovanotto.... Va’ fuori: oggi è una bellissima giornata.

E scomparve dall’uscio, sostenuto dal servo.