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o avversarii del Ministero, come avvolti in una nebbia di diffidenza e di sospetto. Gli pareva che tutti si sentissero spiati, scrutati; che alcuni ridessero per ostentazione, e altri, costernati del colore del loro volto, fingessero di sprofondarsi con tutto il capo in letture assorbenti. Per certuni, non ostante il freddo della stagione, i caloriferi erano mal regolati: troppo caldo! troppo caldo! troppo caldo! Chi sa in quante coscienze era il terrore che, da un momento all’altro, gli occhi di un giudice istruttore penetrassero in esse a inlagare, a frugare, armati di crudelissime lenti!
Al cav. Cao era sembrato, il giorno innanzi, che alcuni deputati, i quali discutevano animatamente in una sala, avessero troncato a un tratto la discussione, vedendo passare Sua Eccellenza D’Atri. S’era fermato un po’ a guardare, accigliato, e da uno di quei deputati, che aveva subito voltato le spalle, aveva sentito ripetere chiaramente più volte, sottovoce, ma con accento vibrato e con impeto di sdegno, il nome di Corrado Selmi, che in quei giorni correva su la bocca di tutti.
Il cav. Cao sapeva bene che nessuno avrebbe osato di mettere in dubbio l’illibatezza di Francesco D’Atri; ma poteva darsi che, per via della moglie, fosse coinvolto anche lui nella rovina del Selmi, che pareva ormai a tutti irreparabile.
Eppure, eccolo lì: passeggiando per lo scrittojo e non ricordandosi più evidentemente nè di chi stava ad aspettarlo nè della esposizione finanziaria, Sua Eccellenza pareva soltanto impensierito d’un pianto infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, arrivava fin lì, da una camera remota, non ostanti gli usci chiusi. Già una volta egli si era recato di là a vedere che cosa avesse la figliuola.
Il cav. Cao non seppe frenar più oltre la stizza