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passi avevano sonato come i colpi di martello su una cassa da morto.

Sentiva una grande arsione; e le gambe, come.... come se gli si fossero stroncate, sotto.

Schiacciato dall’accusa, aveva voluto rilevarsene con tutto l’impeto delle energie vitali ancor possenti in lui; e s’era ucciso. Nessun dubbio, che l’assemblea, subito dopo la sua uscita dall’aula, avesse votato l’autorizzazione a procedere contro di lui.

Eppure tutti lo sapevano povero; sapevano che il denaro tolto alle banche non poteva aver per lui peso di vergogna o di rimorso, come per molti altri.

Dall’avere tante volte affrontato la morte, quando più bella suol essere per tutti la vita, non gli veniva il diritto di vivere? Nella losca complicazione di tante oblique vicende la semplicità di questo diritto appariva quasi ingenua e tale, che tutti, ridendo, dovessero negarglielo.

Morto; non solo, ma anche svergognato lo volevano! Doveva morire allora, e sarebbe stato un eroe per tutti questi vivi, che gli rinfacciavano, ora, come un delitto l’aver vissuto.

Ma non tanto l’accusa, in fondo, gli sembrava ingiusta, quanto ingiusti gli accusatori; e, più che ingiusti, ingrati e vili: vili perchè, dopo avere per tanti anni compreso che egli aveva pure questo diritto di vivere, si levavano ora a dimostrargliene con ischerno l’ingenuità; dopo avere per tanti anni compreso il suo bisogno, si levavano ora a rinfacciarglielo come un’onta.

Nè si sarebbero arrestati qui! Ora, il processo, la condanna, il carcere.

Corrado Selmi rise, e avverti ancora lo sforzo che gli costava lo scomporre la truce espressione del volto in quel riso orribile. Il sorriso schietto e lieve,