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Fu per Dianella e per Nicoletta un momento d’angosciosa sospensione.

Quanto composto e grave e costernato l’onorevole Ignazio Capolino con quei funebri occhiali di tartaruga, tanto appariva stordito, acceso, abbagliato, Aurelio Costa. Gli si leggeva chiaramente in viso l’emozione profonda, che la notizia della sua prossima partenza con Nicoletta gli aveva suscitato. Non sentiva più la terra sotto i piedi; non riusciva ad articolar parola.

Nel vederlo entrare, Nicoletta ne ebbe quasi sgomento: sentì, senza guardarlo, ch’egli la cercava con gli occhi, senza più badare a nessuno. Respirò nel sentirlo poco dopo discuterò animatamente col Laurentano su i moti dei Fasci in Sicilia.

Ogni costernazione gli era svanita, svanita ogni considerazione per quei solfarai affamati d’Aragona, svanito il dispetto per quel suo disegno d’un consorzio obbligatorio mandato a monte: avrebbe ora affrontato col frustino in mano tutti quei ribelli laggiù.

Flaminio Salvo, per prudenza di fronte al Laurentano, lo richiamò sorridendo a più miti propositi.

— Perchè le diano fuoco alle zolfare? — gli domandò tutto infervorato il Costa. — Li conosco io, quei bruti! Guai a mostrare di temerli! Con la verga si riducono a ragione! Lasci fare a me.... Abbandonato da tutti, senza neanche la soddisfazione di veder degnato d’uno sguardo il mio progetto, andrò solo, laggiù.... e ci guarderemo in faccia....

Nell’esaltazione, non avvertiva la stonatura di quella sua apostrofe bellicosa; nè si mortificò affatto nell’accorgersi alla fine che nessuno gli badava più; si lasciò condurre da Capolino nell’ampio balcone della sala, mentre Flaminio Salvo, Francesco Vella