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Nè s’arrestava qui il giuoco delle finzioni dell’anima del Salvo. Egli fingeva di non comprendere ancora quell’aria nuova della figlia, che pure aveva già compreso bene; era sicuro infatti che Dianella, facendo quella lode del Laurentano in presenza di Aurelio, s’era intesa di vendicarsi di questo, e ora, di là, certo, piangeva e si straziava in segreto. La stizza finta per quel premio ch’egli doveva far balenare al Costa, era dunque in fondo stizza vera; tanto che, per non avvertire il rimorso di quello strazio che cagionava alla figlia, seguitò a fingere di credere sul serio, che veramente, sì, veramente, se il Costa fosse riuscito a ridurre a ragione gli operai delle zolfare in Sicilia, gli avrebbe dato in premio Dianella. Intanto, lo faceva partire il giorno appresso in compagnia di Nicoletta Capolino.

La sera, fu compito, ma con una certa sostenutezza, verso Lando Laurentano, accolto con molta festa dai Vella, specialmente da Ciccino e Lillina.

Dianella era pallidissima, e si teneva su per continui sforzi a scatti, che facevano pena e paura. I dolci occhi ora le si accendevano di strani guizzi taglienti, ora s’offuscavano come in un confuso spavento, ora le smorivano quasi in una torba opacità. Nicoletta Capolino, invitata a tavola dai Vella quell’ultimo giorno, le aveva fatto sapere che la mattina appresso sarebbe partita col Costa; e adesso, ecco, era lì e parlava senza vezzi affettati, ma con la vivace disinvoltura consueta al giovane principe di Laurentano della cortesia squisita di don Ippolito, là a Colimbètra, nella disgraziata congiuntura del duello del marito.

Questi entrò, poco dopo, nel ricco salone insieme con l’ingegnere Aurelio Costa, che veniva a licenziarsi dai Vella.