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— Ah; dunque lo conoscete bene? — domandò, contento, don Flaminio.

E volle sapere dai nipoti in che intrinsechezza fossero con lui, e che aspetto e che umore avesse, chiamando a parte la figliuola, con vivaci esclamazioni, della sua meraviglia e del suo compiacimento per le risposte che quelli gli davano.

Ma Dianella si turbò in viso così manifestamente e mostrò negli occhi un così strano sbigottimento, ch’egli cangiò a un tratto aria e tono, e finse di meravigliarsi, perchè la gravità delle cose che avvenivano in quei giorni in Sicilia, e nelle quali il giovane Principe, a quanto si diceva, doveva essere più d’un po’ immischiato, gli pareva non comportasse in lui quell’umor gajo, che i nipoti dicevano. E prese a raccontare, con atteggiamento di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia, a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo, a Casale Floresta, i quali provavano come in tutta l’isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d’alberi morti per siccità e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall’accetta, poichè la pioggia dei benefizii s’era riversata tutta su l’Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta su le arse terre dell’isola. Ora i giovincelli si erano divertiti ad accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano per adesso piccoli scoppi striduli, crepitii qua e là; scappava fuori ora da una parte ora dall’altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s’addensava nell’aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo, invece d’accorrere a gettar acqua, mandava soldati a