Pagina:I ricordi del Capitano D'Arce.djvu/125


Ciò ch'è in fondo al bicchiere 115

rianimava il viso e pareva dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da quella moribonda, con un’immensa dolcezza amara.

Essa preferiva quell’ora, l’angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male. Era il suo pudore e l’ultima sua civetteria. Nell’ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.

Colei o sa che siete qui.... che fate un’opera buona.... per meritarvi il paradiso?

Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell’anelito frequente e quelle povere mani febbrili!

— No.... non mi fiderei più degli amici.... e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro D’Arce!

Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta.

— Noi non siamo stati mai.... nulla. Ecco perchè mi siete rimasto fedele.