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anche la sua esperienza, chiama però bestiali que’ giudici che ne inventan di nuovi.1

Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all’arbitrio, profittando dell’indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano.

Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche misura all’instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, “a certi giudici, non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr’ore,” dice il Farinacci2; “a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand’hanno in loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch’essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune, per un giorno, per una notte intera,” aveva detto il Marsigli3, circa un secolo prima.



  1. Hipp. de Marsiliis, ad Tit. Dig. de quæstionibus; leg. In criminibus, 29.
  2. Praxis, etc. Quæst. XXXVIII, 54.
  3. Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.