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734 | I PROMESSI SPOSI |
“Poi i curati,” disse la vedova.
“No no,” riprese don Abbondio: “i curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fin del mondo. Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell’illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un giorno volessero dell’eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali. Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete cos’ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la dispensa per l’altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica ne ho già.... uno.... due.... tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora. E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol essere: non ne deve rimanere uno scompagnato. Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; chè questo era il momento che trovava l’avventore anche lei. E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso.”
“Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata, cinquanta denunzie.”
“Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de’ mosconi?”
“No, no; io non ci penso, nè ci voglio pensare.”
“Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese....”
“Uh! ha voglia di scherzare, lei,” disse questa.
“Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiam passate delle brutte, n’è vero, i miei giovani? delle brutte n’abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si può sperare che vogliano essere un po’ meglio. Ma! fortunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da parlare de’ guai passati: io in vece, sono alle ventitrè e tre quarti, e.... i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus.”
“Ora,” disse Renzo, “parli pur latino quanto vuole; che non me n’importa nulla.”
“Tu l’hai ancora col latino, tu: bene bene, t’accomoderò io: