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CAPITOLO XXVII. | 525 |
Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d’intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L’autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell’insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest’opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo.
Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, nè che alcun altro potesse far cosa degna d’esser riferita. Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento