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CAPITOLO XXVII. 513

l’attenzione di don Gonzalo. Era informato da tutt’altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l’assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell’avvenimento, era arrivata la notizia, sospirata da que’ signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que’ signori avessero un tal concetto de’ fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via d’induzione, che non aveva perso nulla dell’antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non s’occupò più d’un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov’era tornato, e dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un’ombra; si rammentò della cosa, ebbe un’idea fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.

Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto veder per aria, doveva supporre tutt’altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz’altro pensiero o, per dir meglio, senz’altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro; ma c’eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de’ suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la