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142 | I PROMESSI SPOSI |
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.
“ Ah! ah! ” fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.
“ Dirà il signor curato, che son venuto tardi, ” disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.
“ Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato? ”
“ Oh! mi dispiace. ”
“ L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere... Ma perchè vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo? ”
“ Così per compagnia, signor curato. ”
“ Basta, vediamo. ”
“ Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, ” disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.
“ Vediamo, ” replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.