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Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e d’un bel tratto, in questa materia; due che, fino ad un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a quale deí due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; birbo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva egli pure, ma acuto. Ma, poco innanzi appunto al tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto in luce il libro che terminò la quistione del primato, prendendo la mano anche sulle opere di quei due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovano racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù per poterle praticare; quel libro scarso di mole, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più grandi letterati lo esaltavano a gara, e i più grandi personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifici encomi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli,