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perta; s’intrometteva di soppiatto dietro alle altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo ch’ella v’era. Il pensiero di Lucia stava sovente colla madre: come non vi sarebbe stato?; e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poveretta si lasciava andar qualche volta a fantasticare nella oscurità del suo avvenire, anche lì egli compariva, per dire, se non altro: io, a buon conto, non vi sarò. Pure, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarvi manco, e manco intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia vi riusciva fino ad un certo segno. Vi sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma v’era donna Prassede, la quale tutta impegnata dal canto suo a torle dall’animo colui, non aveva trovato migliore spediente che di parlargliene spesso. “Ebbene?” le diceva: “non pensiamo più a colui?”

“Io non penso a nessuno,” rispondeva Lucia.

Donna Prassede non si lasciava appagare da una risposta simile; replicava che vole-