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un afflusso, un ribocco, un ristagnamento: infermi che andavano in isquadra al lazzeretto; alcuni sedevano o giacevano in sulle sponde dell’uno e dell’altro fossato che costeggian la via; chè le forze non eran loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, o, uscitine per disperazione, le forze eran loro mancate egualmente per andar più oltre. Altri infermi erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sé affatto; quale stava tutto infervorato a raccontar le sue fantasie a un tapino che giaceva oppresso dal male; quale imperversava; quale appariva tutto ridente in vista, come se assistesse a un giocondo spettacolo. Ma la specie più strana e più clamorosa d’una tal trista allegrezza, era un cantare alto e continuo, che pareva venir da fuori di quella grama ragunata, e pur ne vinceva tutte le voci: una canzone popolaresca d’amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamano villanelle; e andando col guardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser lieto, allora, colà, si vedeva un meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato che lambe il muro del lazzeretto, cantava a tutta gola, col volto in aria.
Renzo aveva appena fatti alcuni passi, lungo il lato meridionale dell’edifizio, che